La “creazione” della rivalità tra Hindu e Musulmani
Il passaggio della questione dei rapporti tra Hindu e Musulmani in territorio indiano da dato di fatto a problema politico può essere fatto risalire al momento in cui nel Subcontinente indiano si cominciò a riflettere sull’idea di “nazione”.
A metà dell’Ottocento l’immenso territorio che andava da Peshawar, a nord, a Colombo, a sud, fino all’attuale Myanmar, ad est, era un possedimento britannico, interrotto solo da alcune aree, formate dagli stati indiani indipendenti. La grande rivolta del 1857 era stata da poco sedata, la Corona aveva assunto il controllo diretto dell’India, sostituendosi nel governo del “gioiello della Corona” alla compagnia mercantile East India Company, quando il governo coloniale cominciò ad indagare sulla composizione sociale dei propri sudditi, istituendo un sistema di rilevazioni censuarie che, a partire dal 1871, classificò gli abitanti dell’India in base alla loro appartenenza religiosa e castale. Questi criteri vennero applicati anche al reclutamento e alla promozione nell’ambito della burocrazia coloniale, un meccanismo che il Raj britannico giustificava come volto a tutelare i gruppi più deboli e minoritari, mascherando l’effettiva intenzione di frammentare la società indiana in gruppi che potessero essere facilmente messi in concorrenza tra loro, al fine di indebolire legami di solidarietà politica e omogeinizzazione sociale che potessero condurre alla formazione di un eventuale fronte anti-britannico.
Il criterio di classificazione linguistica venne trascurato dal governo coloniale – poiché avrebbe condotto alla formazione di gruppi omogenei, spalmati su grandi porzioni di territorio –, fuorché in un caso: quello delle lingue hindi e urdu.
Queste due lingue – oggi gli idiomi rispettivamente di Unione Indiana e Pakistan – non esistevano in questa forma fino a fine Settecento. Non esisteva, cioè, questa classificazione, essendo all’epoca l’India del nord un luogo dal panorama linguistico variegato e perlopiù caratterizzato dall’oralità, in cui l’identità della lingua era definita da relatività e relazionalità e in cui, semmai, “la linea di demarcazione più netta […] era quella tra idioma o idiomi delle città e idioma o idiomi delle zone rurali. Nelle città, ove più forti erano i legami economici, culturali e amministrativi con le corti, prevaleva la tendenza alla persianizzazione della lingua, mentre nelle campagne si registrava il forte influsso degli idiomi regionali.”1
Fu il regime coloniale a introdurre il “problema della lingua”, applicando anche a questo settore della civiltà indiana la propria volontà classificatrice, sovra-imponendo nuovi nomi e categorie e sostituendoli alle costruzioni di carattere locale, vivisezionando il corpo della società indiana ed istituzionalizzandone la scomposizione; fine ultimo di questi processi era lo smantellamento di uno dei fondamenti della civiltà indiana, quello dell’unità e dell’integrazione delle varie parti nel tutto, e – di conseguenza – l’imposizione del proprio potere. Nel corso dell’Ottocento, dunque, andò cristallizzandosi nell’India del nord la dicotomia linguistico-religiosa fra lingua degli Hindu, la hindi scritta in alfabeto devanagari, e lingua dei Musulmani, l’urdu-hindustani scritta in alfabeto persiano.
Ma, come si è detto, quello della lingua non fu che uno dei campi in cui il regime britannico mise in atto la propria opera di progressivo smembramento sociale che, tra gli altri, ebbe l’effetto di contrapporre gli Indiani di fede hindu a quelli di fede musulmana; inaugurata dal Raj, questa politica poi si estese ben oltre i cancelli del potere coloniale, per diventare parte integrante delle menti e delle narrazioni delle élite indiane occidentalizzate, che avrebbero guidato il movimento nazionalista e in seguito ereditato il governo dell’India indipendente.
L’idea di Pakistan e la Partizione
“L’estate del 1947 non fu come le altre estati indiane. Quell’anno persino il tempo, in India, sembrava diverso. Faceva più caldo del solito, e tutto era più secco e polveroso. E l’estate durò più a lungo. Nessuno ricordava un’epoca in cui i monsoni erano giunti con tanto ritardo. Per settimane, le nubi produssero solo ombre. Niente pioggia. La gente cominciò a dire che Dio li stava punendo per i loro peccati.
Alcuni avevano buone ragioni per ritenere di aver peccato. L’estate precedente a Calcutta erano scoppiati disordini scatenati dalle notizie della imminente divisione del paese in un’India hindu e in un Pakistan musulmano, e nell’arco di pochi mesi il numero dei morti era stato nell’ordine di svariate migliaia…”
Khushwant Singh, Quel treno per il Pakistan2
Fu proprio all’interno del movimento nazionalista che prese lentamente forma l’idea di Pakistan. Inizialmente la “Terra dei puri” (questo il significato letterale di “Pakistan”) non era tra i sogni della All India Muslim League e del suo fondatore, il giovane avvocato laico e progressista Muhammad Ali Jinnah. Tuttavia, il primo trentennio del Novecento – denso di avvenimenti che pesarono enormemente sulla storia indiana – favorì l’incubazione dell’idea che Hindu e Musulmani indiani dovessero avere due nazioni distinte. Un’idea che fu il prodotto non solo del comunitarismo musulmano, ma anche del nazionalismo hindu (un’ideologia che considerava sinonimi i termini “hindu” e “indiano”, immaginando l’India indipendente come patria degli Hinduisti) e delle politiche attuate dal governo coloniale. Il risultato di queste forze fu la Partizione tra India e Pakistan, che ebbe luogo al momento dell’indipendenza, nell’agosto del 1947.
La Partizione si risolse nell’esodo di circa quindici milioni di persone, Musulmani indiani in viaggio verso il neonato Pakistan e, viceversa, Hindu che si spostavano in India dalle regioni del nord, ora appartenenti al Pakistan. Il massacro ebbe proporzioni enormi, causando la morte – secondo le stime più ottimistiche – di circa 500mila persone e scatenando una serie infinita di violenze e rappresaglie nell’India intera. La popolazione musulmana indiana, che prima della Partizione ammontava a circa il 24% della popolazione totale, venne ridotta a meno del 10%, perlopiù rurale e privata della propria élite intellettuale ed economica – ormai quasi interamente trasferitasi in Pakistan.
I Musulmani indiani, dunque, si trovarono dal 1947 in poi in una condizione fortemente svantaggiata: in minoranza sia dal punto di vista numerico che da quello sociale, economico ed intellettuale, nonché privati dell’appoggio loro garantito in passato dal regime coloniale, il quale – pur con il fine di inasprire i rapporti tra Hindu e Musulmani – aveva comunque concesso ai secondi una certa protezione.
Tuttavia, dopo la Partizione e per tutto il periodo nehruviano (1947-64) i rapporti tra le due comunità furono pacifici, una conseguenza tra le altre del pensiero e dell’opera di governo di Nehru, attento a preservare la laicità dello stato indiano e a non imporre al proprio Paese un’identità unica e fissa, salvaguardandone invece le molteplici diversità e la tipica varietà di appartenenze (religiosa, castale, economica, etnica, linguistica…).
Il dopo-Nehru e l’inasprimento dei rapporti hindu-musulmani
Le provocazioni tra le due comunità ricominciarono a metà degli anni Sessanta, secondo procedure secolari e ormai fisse, consistenti nella deliberata profanazione da parte di una o dell’altra comunità di uno dei simboli più cari alla tradizione religiosa della comunità “rivale”; profanazione che, tipicamente, conduceva e conduce a scoppi di feroce violenza, rappresaglie a catena, distruzioni e violazioni di ogni sorta.
I disordini del 1964 furono scatenati dal furto di una reliquia del Profeta – un pelo della sua barba – da una moschea di Srinagar, in Kashmir, dove era conservata. Mentre gli Hindu perseguitati in Pakistan si riversavano in India come rifugiati, nelle città indiane imperversava la rappresaglia anti-musulmana, tanto efferata da sconvolgere tutto il Subcontinente. Nel 1969 ad Ahmedabad, in Gujarat, i morti furono più di un migliaio.
Se non ne furono certamente la conseguenza diretta, questi episodi ebbero in qualche modo una relazione con il momento storico-politico in cui si svolsero e furono sentore della svolta che avrebbe investito la politica indiana. Era questo, infatti, un periodo in cui la grandezza del partito del Congresso – che, attraverso figure come Nehru e Gandhi, aveva guidato il Paese verso l’Indipendenza – già sfumava. Agli ideali universalisti su cui Nehru aveva costruito il proprio governo si sostituiva, lentamente ma inesorabilmente, la tentazione di utilizzare le diverse appartenenze delle varie comunità a fini politici – un metodo che tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta avrebbe trovato in Indira Gandhi la teorica principale e che, poco dopo, avrebbe aperto le porte della scena politica indiana a formazioni dalle retoriche sempre più costruite sui particolarismi (prima tra tutte, il partito della destra nazionalista hindu “Bharatiya Janata Party”, il BJP).
Un tassello importante della storia dei rapporti tra Hindu e Musulmani è rappresentato da una vicenda giudiziaria, che attirò l’attenzione dell’India intera a partire dal 1985: il “caso Shah Bano”. Shah Bano era un’anziana signora di fede musulmana, che il marito ripudiò tramite la procedura, prevista dal codice musulmano, del triplo talaq, ovvero la ripetizione per tre volte della frase “ti ripudio”. Privata in questo modo di ogni fonte di sostentamento, Shah Bano si appellò al codice di procedura penale, affinché le venisse riconosciuto il diritto ad una cifra mensile per il suo mantenimento; ottenne ragione dalla Corte, che deliberò in modo contrario a quanto previsto dal diritto di famiglia musulmano.
Questa decisione, per di più adottata da un giudice hindu, scatenò le proteste di buona parte dei Musulmani indiani, indignati per quell’intromissione. Shah Bano dovette rinunciare “volontariamente” alla pensione che le era stata riconosciuta come diritto e Rajiv Gandhi – Primo Ministro dopo l’assassinio della madre Indira – annullò il giudizio della Corte attraverso una legge ad hoc: il Muslim Women (Protection of Rights) Bill, del 1986, stabilì che ai Musulmani non venisse imposto l’obbligo di concessione degli alimenti dopo una separazione, e che potessero provvedere autonomamente – attraverso le istituzioni caritative musulmane – alle necessità delle donne ripudiate. Questa legge, creata dal governo nazionale con l’ovvio intento di non alienarsi le simpatie della comunità (e quindi dell’elettorato) musulmana, denuncia due gravi falle, una di carattere generale e una specifica invece del sistema congressista del tempo. In primo luogo, tramite questo provvedimento il governo calpestò un diritto delle donne, anteponendovi la necessità di preservare – a parole – una “tradizione” e – nei fatti – le proprie esigenze elettorali: cioè, in ogni caso, un potere maschile di qualche tipo. In secondo luogo, esso dimostrò ancora una volta l’abitudine ormai sedimentata del ricorrere, per fini politici, ai particolarismi, distribuendo favori e privilegi all’una o all’altra comunità (o gruppo castale, o minoranza etnica…), invece di invocare diritti universali per l’intera popolazione indiana. Paradossalmente, il successo del Congresso a livello panindiano era ormai del tutto dipendente dal modo in cui esso riusciva a coccolare i particolarismi, i campanilismi, i provincialismi dei vari sotto gruppi che componevano lo sfaccettato popolo indiano.
La rielaborazione della tradizione in chiave hindu-nazionalista: l’episodio della moschea di Ayodhya
Fu sempre intorno alla metà degli anni Ottanta che emerse un’altra spinosissima questione, la cui eco risuona ancora oggi.
Dal 1984 il nazionalismo hindu rimise mano all’antica rivendicazione del sito di Ayodhya (in Uttar Pradesh), considerato luogo di nascita del dio Ram (Ram Janm Bhumi) e, dal XVI secolo, sede di una moschea, la Babri Masjid, che all’epoca sarebbe stata edificata sulle rovine di un tempio dedicato a Ram e deliberatamente profanato. Poco dopo la Partizione, il governo dell’Uttar Pradesh aveva dichiarato la moschea e i suoi dintorni “area contesa”, impedendovi l’accesso sia a Musulmani che a Hindu.
Nel 1986 Rajiv Gandhi cominciò a prendere provvedimenti per la riapertura del sito religioso, facendo approvare ad un tribunale compiacente una sentenza, che aprì ai soli Hindu il culto all’interno dei confini della Babri Masjid. Questo provvedimento e quello sul caso Shah Bano dovevano comporre, negli intenti di Rajiv Gandhi, una sorta di “pacchetto” che accontentasse entrambe le comunità.
La sentenza sulla Babri Masjid scaldò ulteriormente gli animi alla destra hindu radicale, che cominciò più o meno velatamente ad auspicare che la moschea venisse “rimossa”, per far posto ad un tempio dedicato a Ram, cui quel sito – sostenevano – spettava di diritto. Nonostante non esistessero prove di questo e un tempio hindu che sorgeva in quel luogo fosse stato abbattuto mille anni prima della conquista musulmana dell’India, le masse hindu si aggregarono ingenuamente alle richieste degli estremisti, lasciandosi coinvolgere in una serie di agitazioni sempre più violente ed andando ad ingrossare le fila dei sostenitori del partito nazionalista hindu BJP, favorito anche dall’assassinio di Rajiv Gandhi, nel 1991.
Il 6 dicembre 1992 una massa di Hindu si accanirono sulla Babri Masjid, radendola letteralmente al suolo in poche ore, mentre in tutto il Paese si compivano giganteschi pogrom anti-musulmani, ai quali i Musulmani risposero con uguale efferatezza, in una escalation di violenza che venne sedata solo nel marzo dell’anno dopo.
La questione dell’appartenenza hindu o musulmana del sito di Ayodhya riaffiorò nel 2002, nello stato del Gujarat – a ridosso delle elezioni regionali, previste in quello stato per il 2003, e di quelle nazionali del 2004.
Il BJP sfoderò ancora una volta l’arma Babri Masjid-Ram Janm Bhumi a fini elettorali, insistendo sul progetto di costruzione di un tempio hindu al posto della moschea distrutta dieci anni prima – ma i tribunali lo impedirono, e questo accese gli animi dei nazionalisti hindu gujarati.
Il 27 febbraio di quell’anno, un treno su cui viaggiavano i nazionalisti hindu di ritorno da un pellegrinaggio ad Ayodhya – che per tutto il percorso e nelle stazioni avevano scandito slogan e provocazioni anti-musulmani – venne fermato nel quartiere musulmano della città di Godhra; un incendio divampò in uno dei vagoni, provocando la morte di cinquantasette pellegrini hindu. Questo fornì il pretesto per il dilagare della violenza anti-musulmana in tutto il Gujarat, dove le vittime furono circa duemila, i feriti migliaia e migliaia, i rifugiati 125mila, i luoghi di culto distrutti oltre cinquecento, in una furia che ricordava il tentativo di pulizia etnica dei tempi della Partizione e che denunciava una buona dose di premeditazione a livello del governo regionale gujarati.
Grazie ai disordini, in Gujarat le elezioni furono anticipate alla fine del 2002, garantendo al BJP una vittoria alla quale difficilmente avrebbe potuto aspirare, solo un anno prima.
Con le elezioni generali del 2004, che riportarono al governo una coalizione di centro-sinistra guidata dal Congresso, la antica questione Babri Masjid-Ram Janm Bhumi venne di nuovo sopita. Ma quello che ormai è divenuto il simbolo dei conflitti fa Hindu e Musulmani in India doveva tornare agli onori della cronaca; in questo caso, non per essere stato il pretesto di nuovi massacri.
Il 30 settembre 2010, tre giudici dell’Alta Corte di Allahabad hanno emesso il tanto atteso verdetto sul sito di Ayodhya, destinato a decidere una volta per tutte l’appartenenza originale e l’utilizzo futuro di quel terreno conteso. Il verdetto – articolato in migliaia di pagine – stabilisce, tra le altre cose, che “il sito oggetto della contesa è il luogo di nascita del Signore Ram”; che “l’edificio oggetto della contesa fu costruito da Babur; l’anno non è certo, ma fu costruito contro i dettami dell’Islam. Dunque, non può avere il carattere di una moschea”; che “la struttura oggetto della contesa fu edificata sul sito di una vecchia costruzione, dopo che quest’ultima fu demolita. L’Archaeological Survey of India ha provato che quella struttura era un grande edificio religioso hindu”; che “le tre parti – i Musulmani, gli Hindu e Nirmoi Akhara [una setta hindu, NdA] – sono designate come i tre proprietari congiunti del sito in questione… nella misura di un terzo, da utilizzarsi a scopi di culto.”3
Il sospetto è che il verdetto – accolto con tiepido entusiasmo da alcuni, con aperta delusione da altri (“It’s no-one victory, no-one defeat”, ha commentato il leader del movimento estremista hindu RSS), con timore e prudenza dal governo centrale –, pur cercando un ragionevole compromesso, non risolva in nessun modo l’antica querelle. Che, come sempre in casi simili, non è (o non è solo) religiosa, ma ha a che fare con più profonde questioni identitarie.
Non convince l’ipotesi di alcuni, secondo i quali il cambiamento che ha investito l’India negli ultimi anni rende il Paese in cui è avvenuta la distruzione del 1992 profondamente diverso da quello che, oggi, accoglie il verdetto sul sito di Ayodhya e può reagire con maturità e ragionevolezza.
Pur essendo il mutamento del Paese negli ultimi vent’anni innegabile, infatti, questa lettura può ipotizzare una conclusione solo parziale del problema-simbolo Babri Masjid-Ram Janm Bhumi. Essa non tiene conto del periodico riaffiorare della questione, maneggiata ad arte, come si è visto, a fini politici ed elettorali, e sempre capace di incendiare gli animi e le ire degli uni e degli altri – un mix esplosivo degli elementi che da sempre, a tutte le latitudini, fungono da pretesto per lo sfogo di svariate e più profonde frustrazioni: appartenenza identitaria, religione, tradizione.
* Elena Borghi, dottoressa in Studi linguistici e antropologici sull’Eurasia e il Mediterraneo (Università “Ca’ Foscari” di Venezia), è autrice di Sai Baba di Shirdi. Il santo dei mille miracoli (Red, Milano 2010) e Vivekananda. La verità è il mio unico dio (Red, Milano 2009)
1 Milanetti, G., “La tradizione inventata: in qual modo una bella lingua indiana senza un nome preciso fu chiamata hindi e trasformata in power construction”, in M. Torri e E. Basile (a cura di), Il Subcontinente indiano verso il Terzo millennio, Franco Angeli Edizioni, Milano 2002, p. 458.
2 Khushwant Singh, Quel treno per il Pakistan, Marsilio, Venezia 2002.
3 “Ayodhya Judgment”, 30 Sept. 2010, http://www.bbc.co.uk/news/world-south-asia-11443110