Da alcune settimane circola la notizia che sarebbero in corso delle trattative tra il governo di Karzai e alcuni esponenti di spicco dei taliban per decidere il futuro dello Stato afghano.
Nonostante le smentite giunte dai taliban, i quali parlano di un’azione di mera propaganda tesa a scalfire il morale delle loro truppe, i contatti sono stati instaurati e si procede ormai, in maniera sempre più spedita, verso un negoziato che coinvolga i diversi attori in gioco.
Risale allo scorso 10 ottobre la notizia che il governo afghano aveva intavolato dei negoziati con alcune fazioni talebane. È stato lo stesso capo del governo, Hamid Karzai, a darne notizia in diretta televisiva, in un’intervista concessa alla CNN.
“Non si tratta di contatti ufficiali e regolari con i talebani, ma piuttosto di contatti personali non ufficiali che vanno avanti da diverso tempo”, si è subito affrettato a precisare Karzai.
Accolto positivamente dalla comunità internazionale, questo è certamente uno dei passi più importanti intrapresi da Karzai da quando è al governo.
In passato, il capo dell’esecutivo afghano aveva optato per un approccio differente che si è dimostrato del tutto inefficace ai fini di una risoluzione dei problemi del Paese.
La jirga convocata lo scorso giugno ne è un esempio. Più che le 1600 personalità presenti, a spiccare erano soprattutto gli assenti e da varie parti erano giunte critiche nei confronti di questo approccio scarsamente inclusivo e destinato dunque al fallimento.
L’inizio del ritiro delle truppe straniere dal territorio afghano è previsto per il prossimo luglio e urge affrettare i tempi e adottare misure radicali.
La logica che sta dietro gli avvenimenti delle ultime settimane è abbastanza chiara: si vuole fare in modo che il ritiro dall’Afghanistan avvenga in condizioni tali da evitare un’archiviazione della missione come un totale fallimento operativo e strategico.
Questi ultimi mesi hanno visto un intensificarsi delle operazioni sul campo ed un uso sempre più massiccio dei droni per attaccare le roccaforti dei taliban nelle regioni tribali pakistane.
Vi sono stati anche casi di attacchi effettuati con elicotteri d’assalto sul territorio pakistano. Proprio uno di questi, lo scorso 27 settembre, ha provocato le aspre critiche dell’establishment di Islamabad, il quale si è scagliato contro l’azione delle truppe ISAF che non sarebbero autorizzate ad operare al di fuori dei confini afghani. In tale occasione, il governo pakistano ha ordinato la chiusura della maggiore via di rifornimento delle truppe stanziate sui territori orientali dell’Afghanistan, il cosiddetto Khyber Pass, bloccando di fatto, per i seguenti 10 giorni, gran parte dei cargo diretti verso Kabul.
La netta presa di posizione delle autorità pakistane appare più un tentativo di evitare un’ulteriore alienazione di consensi interni che una sincera difesa della sovranità statale.
Basti qui ricordare come già nel 2008, in seguito ad un raid delle US Special Operations Forces sul suolo pakistano, il Generale Kayani, avesse espresso il suo disappunto e ribadito per l’ennesima volta che non esisteva alcun accordo tra il governo pakistano e quello americano che permettesse alle truppe a stelle e strisce di condurre operazioni ad est del confine afghano.
Gli attacchi sono invece proseguiti e sorge dunque il sospetto che tra gli Stati Uniti e il Pakistan ci sia un’intesa in tal senso. E qualcosa comincia a trapelare.
Lo scorso febbraio Dianne Feinstein, presidentessa della Commissione di Intelligence del senato statunitense, svelò che i drone utilizzati per stanare i taliban nelle regioni tribali a confine con l’Afghanistan partivano proprio da una base sul territorio pakistano.
In quell’occasione, il primo ministro Gilani negò che potesse trattarsi della base aerea di Shahbaz e affermò che avrebbe investigato circa l’utilizzo, da parte delle truppe statunitensi, della base di Shamsi, situato nella regione del Baluchistan.
Tuttavia, già agli inizi del 2009, il Times aveva fatto trapelare la notizia che, stando a rilevazioni satellitari, sarebbe proprio quello il luogo da cui sarebbero partiti molti dei 184 attacchi che dal 2004 hanno colpito soprattutto le Federally Administered Tribal Areas.
Gilani ha affermato che effettivamente ci sarebbe un accordo tra Pakistan e Stati Uniti, ma che questo permetterebbe solamente l’effettuazione di voli di sorveglianza e ricognizione sullo spazio aereo pakistano. Nulla a che fare con attacchi missilistici.
Lo stesso primo ministro avrebbe inoltre criticato il Generale Musharaff, reo, a suo dire, di aver firmato tale accordo a spese della strenua difesa della sovranità statale.
Si tratterebbe dunque di una serie di abusi commessi dalle truppe statunitensi e sino ad ora tollerati dalle autorità pakistane. La realtà però appare differente.
Resta dunque da comprendere la strategia degli attori in campo e cercare di utilizzare gli indizi a disposizione per elaborare delle ipotesi circa gli scenari futuri del conflitto afghano.
Negli ultimi mesi, le truppe pakistane sono state molto attive in alcune delle agenzie costituenti le cosiddette FATA. L’obiettivo principale degli attacchi è rappresentato dal Tehrik-i-Taliban ossia, quei taliban di nuova generazione che tanti problemi stanno causando alle autorità di Islamabad.
Durante le operazioni, sono stati catturati anche membri di medio rango appartenenti alla rete di Al-Qaeda.
Nel febbraio scorso, è stato inoltre catturato il Mullah Baradar, numero due della shura di Quetta e dunque membro di spicco dei taliban afghani.
Molto si è discusso circa la sua cattura. Da più parti è trapelato che si sia trattato di un “errore” e che l’ISI (Inter-Services Intelligence) non fosse a conoscenza della presenza di Baradar. L’operazione condotta a Karachi non aveva quindi lui come obiettivo.
In passato ci sono stati diversi casi di personalità di spicco catturate e rilasciate pochi giorni dopo dall’intelligence pakistana. Tuttavia, il Mullah Baradar era una personalità troppo importante ed un suo eventuale rilascio avrebbe suscitato aspre polemiche.
Secondo altre fonti invece, l’arresto del numero due dei taliban aveva una logica diversa. L’obiettivo sarebbe stato quello di eliminare dalle scene un personaggio scomodo. Lo scopo dell’ISI sarebbe stato quello di punire il Mullah in quanto colpevole di aver intavolato dei negoziati col governo afghano, senza averne prima dato avviso alle autorità dell’intelligence pakistana.
Questa seconda ipotesi parrebbe piuttosto sconvolgente, ma non farebbe che confermare il ruolo attivo giocato dall’ISI sullo scacchiere afghano.
La notizia della liberazione del Mullah Baradar è apparsa lo scorso 16 ottobre sul giornale pakistano Daily Times secondo cui questa mossa andrebbe letta nell’ambito del dialogo avviato dal governo di Karzai con i talibans.
La liberazione di Baradar deriverebbe dunque dalla volontà di facilitare i futuri negoziati e costituirebbe un’ulteriore prova di quanto sia imprescindibile un coinvolgimento del Pakistan ai fini del buon esito degli stessi.
Il primo ministro Gilani, sempre in occasione dell’intervista rilasciata al quotidiano pakistano Dawn avrebbe sottolineato l’importanza di un ruolo attivo del Pakistan nei futuri negoziati, ribadendo come Islamabad costituisca una preziosa risorsa più che una fonte di problemi.
Il governo pakistano ha diversi assi nella manica e pare sia giunto il momento di tirarli fuori e giocarseli nel migliore dei modi.
La relazione privilegiata che intercorrerebbe tra l’ISI ed i vertici della shura di Quetta e della rete degli Haqqani rappresenterebbe la maggiore arma a disposizione del Pakistan.
Sebbene le autorità pakistane abbiano sempre negato ogni possibile collusione, ci sarebbero diverse prove e dichiarazioni che testimonierebbero il contrario.
La reticenza dell’esercito pakistano ad avviare operazioni nel Nord Waziristan nonostante le pressioni statunitensi sarebbe solo uno degli indizi che testimonierebbero l’esistenza di tale relazione.
Da molte parti, all’interno del paese, si sente dire che se ciò fosse vero, non sarebbe altro che un modo di perseguire un legittimo interesse nazionale.
Stanco dell’ostilità mostrata dai vari governi che si sono succeduti in Afghanistan prima dell’ascesa dei taliban, l’establishment pakistano vorrebbe evitare che ciò riaccada una volta che le truppe straniere avranno abbandonato il terreno di battaglia.
Il concetto di strategic depth applicato al territorio afghano rappresenta ancora un caposaldo della strategia militare pakistana e costituisce un’ulteriore prova di quanto Islamabad sia condizionata, in politica estera ma anche in quella domestica, dalla forte ostilità con l’India.
Il Pakistan ha accolto con una certa soddisfazione gli ultimi disordini che hanno scosso il Kashmir e sta tentando, ancora una volta, di inserire la questione kashmira nell’agenda della comunità internazionale. “Il Kashmir scorre nelle nostre vene”, affermava Musharraf pochi anni or sono ed è dunque evidente come un eventuale riavvicinamento tra i due vicini Stati nucleari, non possa prescindere da una soluzione di questa questione.
Le ultime dichiarazioni del portavoce del Dipartimento di Stato americano Philip Crowley non lasciano presagire evoluzioni rilevanti. Egli si è detto infatti preoccupato per i disordini, ma ha anche ribadito che tale questione deve essere risolta sulla base di negoziati bilaterali.
Aspettando che nuove indicazioni giungano dal viaggio che il prossimo novembre, il Presidente Barack Obama effettuerà in India, gli Stati Uniti stanno cercando di mettere sul piatto altre carte.
Nell’incontro tenutosi il 22 ottobre tra il Segretario di Stato Hillary Clinton ed il ministro degli esteri pakistano Mahmood Qureshi, si è parlato della possibilità di stringere un accordo che permetta al Pakistan di accedere alla tecnologia utile per il nucleare civile, riducendo così la sua dipendenza dall’importazione di gas e petrolio.
Inoltre, gli Stati Uniti hanno proposto un piano quinquennale di aiuti militari che si aggirerebbe intorno ai 2 miliardi di dollari. Pare che dietro questa offerta ci sia la volontà di rafforzare la presenza della CIA sul territorio pakistano, ipotesi sino ad oggi osteggiata dal governo di Islamabad, ma soprattutto dall’intelligence pakistana.
La trama dunque si infittisce e gli attori in campo cercano di accrescere il loro potere negoziale in vista dei negoziati.
Obiettivi divergenti si scontrano con la necessità di porre fine ad un conflitto che dura ormai da oltre 9 anni.
Sul terreno di battaglia si continua a combattere e il frastuono provocato dalle armi è forte più che mai.
Attendiamo dunque che scenda copiosa la neve a nascondere il sangue che scorre per le strade afghane e ad ostruire le vie di passaggio, costringendo le parti ad una tregua forzata. È proprio allora che l’High Peace Council dovrebbe avviare dei negoziati formali con i vari gruppi coinvolti nei combattimenti e l’unica cosa che possiamo prevedere è che si tratterà di un compito tutt’altro che semplice.
Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Autore, e potrebbero non coincidere con quelle di “Eurasia”