La proposta di legge sul divieto di utilizzare il niqab – costume islamico indossato dalle donne e che copre l’intero corpo lasciando scoperti solo gli occhi – presentata dal partirto serbo SDNS è stata discussa in questi giorni nel parlamento della Bosnia Erzegovina. Il controverso disegno di legge ha acceso i toni dello scontro politico fra serbi e musulmani riportando all’attenzione dell’opinione pubblica e dei commentatori internazionali il tema del ruolo dell’Islam in Bosnia Erzegovina. La questione è estremamente delicata non solo nell’equilibrio interno del paese, ma anche nel determinare gli equilibri internazionali che legano, parlando in termini di macro categorie ideologiche, l’Occidente al Medioriente, soprattutto in seguito all’evoluzione dei rapporti nel post 11 settembre e l’inizio della guerra al terrorismo.
Terra di confine fra il cattolico impero Austro-Ungarico e la Sublime Porta, la Bosnia-Ezegovina è ancora oggi uno strategico confine fra oriente ed occidente, un terreno di incontro e scontro. Essa assume una valenza speciale nella competizione fra le potenze occidentali e quelle orientali, in primis la Turchia, l’ Arabia Saudita, l’Iran. Su un piano, tale competizione si gioca sui temi della ricostruzione e del rilancio economico del paese ferito dalla guerra degli anni ’90: mentre la Bosnia Erzegovina è stata inserita a pieno titolo e prosegue lungo il cammino verso l’integrazione europea, sempre più ingenti sono gli investimenti islamici nel paese. Giusto per riportare alcuni degli esempi più visibili, basti pensare che la Bosnia Bank International (BBI), stabilita nel marzo 2002, è finanziata da alcuni dei principali gruppi del Golfo come la Islamic Development Bank e la Abu Dhabi Islamic Bank. Dagli stessi finanziatori sono stati costruiti il primo grande centro commerciale di Sarajevo, il BBI center, ed alcuni importanti edifici sempre nella capitale, come la torre di Avast, la moschea di re Fahd e il grande centro culturale iraniano sulla Marsala Titova, l’arteria principale della capitale.
Su un altro piano tale competizione si gioca in ambito religioso e culturale, ed è caratterizzata dall’emergere di un Islam tradizionalista e fondamentalista attraverso l’infiltrazione di gruppi sunniti radicali, sostanzialmente supportati, pur non ufficialmente, dagli Stati musulmani. L’infiltrazione e il rafforzamento del fondamentalismo islamico in Bosnia Erzgovina, avvenuto durante il conflitto degli anni ’90, non è mai stato oggetto di grande attenzione dei media e dei commentatori internazionali, forse volutamente, in quanto, per ragioni politiche e strategiche, USA e Europa vogliono dare della Bosnia l’immagine di paese pienamente europeo ed occidentale. È in realtà oramai assodato il coinvolgimento dei Balcani, e della Bosnia Erzegovina nello specifico, nella geografia della guerra al terrorismo islamico internazionale. Come ha ricordato il presidente statunitense J.W.Bush pochi anni fa (Oluic, radical islam on Europe’s Frontier, 2008), mentre il mondo è concentrato sui teatri di guerra in Iran ed Afghanistan, gli storici legami fra l’Islam e i Balcani dovrebbero essere tenuti maggiormente sottocontrollo.
Il fondamentalismo islamico in Bosnia Erzegovina si è infiltrato durante la guerra fra il ’92 e il ’95 quando un gruppo di guerriglieri, “mujahidin” giunsero nel paese in difesa dei confratelli musulmani. Tali guerriglieri provenivano dall’Europa, dal Nord Africa e dal Medio Oriente, ed erano per la maggior parte veterani della guerra in Afghanistan, pronti a combattere una nuova Jihad, questa volta contro serbi e croati. Nel dopo guerra gran parte di questi combattenti riuscirono a sfuggire alla legge sul rimpatrio dei combattenti stranieri prevista dagli accordi di Dayton, ottenendo la cittadinanza bosniaca e sposando donne locali. Essi si insediarono così sul territorio, con particolare concentrazione nel centro del paese come nel villaggio di Bočinja e nella città di Zenica.
I guerriglieri hanno potuto contare sul sostegno, o quantomeno sul benestare, dei bosniaci che, durante l’era di Tito, si erano formati in Stati musulmani, come l’Egitto, l’Iraq e la Siria. Fra questi spiccano alcuni nomi noti, quali quello di Alia Iztbegovic, ex Presidente bosniaco, che, oltre ad aver difeso il diritto dei mujahidin di rimanere in Bosnia Erzegovina, ha, durante la guerra, avviato le relazioni con diversi paesi musulmani quali l’Iran e l’Arabia saudita, che sono i principali finanziatori dei mujahidin. Tali gruppi, legati al movimento sedicente wahhabita, promuovono una visione tradizionalista dell’Islam basata su una lettura rigida del Corano e il rispetto della Shari’a.
Molti dettagliati report mettono in evidenza gli stretti legami fra il movimento islamista radicale presente in Bosnia ed al Qa’ida, (si veda David H. Gray and Fred A. Tafoya, in Research Journal of International Studies, marzo 2008; documentation center of Srpska for crimes research Islamic Fundamentalist’s Global Network – Modus Operandi – Model Bosnia, settembre 2002; Oluic, radical islam on Europe’s Frontier, 2008), e come quest’ultima sia riuscita ad insediarsi nel cuore d’Europa, utilizzando la Bosnia Erzegovina come base di smercio di armi, addestramento e indottrinamento. La principale forza del movimento è l’agire tramite le ONG islamiche, attraverso le quali, tanto durande la guerra, che nel post-conflitto, i gruppi islamisti radicali riescono a raccogliere ingenti finanziamenti in forma di donazioni e a penetrare nella società bosniaca.
La comunità islamista in Bosnia non ha una struttura nè una leadership definita, in quanto si lega al movimento islamista radicale internazionale. Essa però viene in pratica rappresentata in Bosnia da alcuni bracci operativi, come la AIO (Active Islamic Youth), nata a Zenica nel 1995 con l’intento di trasformare la Bosnia in uno Stato Islamico. Oltre a fare proselitismo, il gruppo è conosciuto per dare assistenza ai guerriglieri in Cecenia, ed è stata protagonista di incidenti che hanno infiammato le tensioni etniche come, nel 2002, l’assassinio di un intera famiglia di bosniaci croati nella città di Kostajnica (Oluic 2008).
Sempre più numerosi sono stati negli anni incidenti di questo tipo e il verificarsi di veri e propri atti di terrorismo. Il primo spettacolare arresto è avvenuto nel 2005, quando l’intelligence bosniaca ha sventato un attacco terroristico volto a colpire le Ambasciate Occidentali a Sarajevo. Da allora sono stati frequenti casi simili, l’ultimo incidente proprio nel mese di giugno, quando, nella città di Bugojno, un poliziotto è rimaso ucciso e altri sei feriti in un attentato terrorista. L’attacco pare essere stato una risposta al massiccio raid della polizia nel remoto villaggio di Gornja Maoca nel nordest del paese, avvenuto lo scorso febbraio.
Come ha sottolineato il redattore esteri dell’SRNA, Danijela Dzeletovic in un’intervista rilasciata all’International Analyst Network, il fondamentalismo islamico bosniaco rappresenta una seria e sostanziale minaccia, perchè conta alcune migliaia di membri che sono fanatici, ed hanno accesso ad armi e capitali con i quali addestrare nuove reclute ed infiltrarsi nei meccanismi statali.
Gli estremisti islamici possono approfittare della debolezza della Stato e della sua sostanziale incapacità di controllare effettivamente il territorio. La Bosnia Erzegovina è amministritivamente divisa in due entità, la Repubblica Srpska, a maggiornaza serba, e la Federazione di Bosnia Erzegovina, composta da musulmani e croati, più il piccolo multietnico Distretto di Brcko. Il potere è fortemente sbilanciato verso le entità amministrative e il funzionamento Statale è praticamente paralizzato da un’amministrazione inefficiente, dall’alta corruzione e da una dialettica politica basata sulla difesa degli interessi etnici. Tale situazione rende lo Stato incapace di affrontare la minaccia terrorista senza l’aiuto internazionale e lascia al fondamentalismo un ampio spazio per poter attecchire e rafforzarsi.
Ad avviso di chi scrive, l’elemento più significativo è l’aumentare dei proseliti del movimento islamista e il rischio della radicalizzazione dell’Islam bosniaco. Tale movimento riesce, infatti, a trovare terreno fertile nelle fascie più deboli della società, disilluse nei confronti della classe politica e nella comunità internazionale, come i disoccupati e gli orfani di guerra, sopratutto nelle aree rurali e nei ceti più poveri (Oluic 2008). Per quanto non esistono dati certi, è stimato che i sostenitori del movimento islamista radicale siano fra il 3 e il 13% della popolazione (Oluic 2008). Certo una minoranza, ma non trascurabile, anche in considerazione dell’intensificarsi degli episodi di violenza e della presenza sempre più cospicua di donne che indossano il niqab e uomini che portano la barba lunga ed un abbigliamento estraneo alla tradizione islamica bosniaca.
L’Islam bosniaco si è sviluppato con caratteristiche peculiari rispetto a quello tradizionale, tanto da essere identificato come una categoria indipendente nel panorama islamico (Ahmet Alibašić, the Profile of Bosnian Islam And How West European Muslims Could Benefit from It, Novembre 2007; osservatorio balcani-caucaso, 12 marzo 2004).
La tradizione musulmana in Bosnia Erzegovina è legata al dominio turco, durato fino al 1878. Oggi i musulmani sono considerati una della tre etnie costituenti, assieme ai croati e ai serbi e rappresentano circa il 40 % della popolazione totale. Il dominio austro- ungarico prima e la lunga parentesi comunista dopo, hanno smorzato il carattere tradizionalista dell’Islam bosniaco. In tal modo esso si caratterizza, oggi, con caratteri moderati e secolarizzati, tanto da far parlare di Islam “europeo”.
Le principali differenze fra islamisti radicali e seguaci dell’Islam bosniaco sono proprio la pratica religiosa e la separazione fra Stato e religione. Mentre i primi si rifiutano di accettare leggi estranee ai precetti coranici e alle norme della Shari’a, l’Islam bosniaco ha accettao il concetto di laicità dello Stato e il rispetto assai più blando dei costumi e delle pratiche religiose, relative all’abbigliamento, all’uso dell’alcol e alle modalità della preghiera, in ragione proprio della sua storia, che ha portato l’Islam a convivere con gruppi religiosi cristiani e in una lunga parentesi di “laicità socalista”.
Bisogna dunque prestare attenzione a non confondere il fondamentalismo, con la presenza islamica in Bosnia Erzegovina, presenza intrinsicamente legata alla cultura e alla storia di questo paese. Ne è prova l’intenso dibattito sorto all’interno della Comunità Islamica (IC) relativamente alla presenza di gruppi islamisti radicali. Il carattere laico e moderato del’Islam bosniaco è stato ampiamente dimostrato dai dissenzi di quanti hanno preso le distanze e aspramente criticato l’impostazione dei gruppi radicali nei confronti dei rapporti fra Religione e Stato e nel modo di intendere la pratica religiosa in se. I gruppi radicali si sono, del resto, apertamente posti in contrasto con la Comunità Islamica, criticando l’Islam tradizionale bosniaco. La CI ha reagito emanando una risoluzione nella quale richiama i musulmani “alla saggezza e alla stabilità” e condannato il comportamento di coloro che cercano di imporre il radicalismo islamista decidendo che cosa corrisponda alla”vera fede”.
Altresì, non devono essere sottovalutati le influenze del fondamentalismo islamico sulla società e soprattutto le ripercussioni sulle politiche della leadership della Comunità Islamica e della rappresentanza politica della nazionalità musulmana.
Molte critiche sono state avanzate nei confronti del Ra’is al-‘Ulama Mustafa Celić (Osservatorio balcani-caucaso, 17 maggio 2010) per la superficialità con la quale ha affrontato la presenza islamista. Celić, infatti, non ha mai formalmente denunciato l’AIO e continua ad opporsi all’espulsione dei mujahidin, sostenendo la tesi che essi devono essere trattati da eroi nazionali.
Numerose critiche, soprattuto da parte della comunità internazionale, hanno poi suscitato i comportamenti del principale partito di rappresentanza musulmana, il SDA. Il suo fondatore, l’ex presidente Alia Iztebegovic, è accusato di aver avviato i rapporti con l‘Iran, l’Arabia Saudita e altri Stati arabi-musulmani, che sono i principali sostenitori del movimento islamista- fondamentalista e dai quali lo stesso SDA ha ricevuto ingenti finanziamenti – l’Iran ha stanziato mezzo milione di dollari in supporto della campagna elettorale del SDA alle elezioni del 1996. Il partito inoltre, nell’immediato dopo guerra, si è fortemente caratterizzato per la sua vocazione islamista e ha dato il via ad una forte islamizzazione delle strutture dello Stato, secondo il principio “stato secolare, nazione spirituale”.
Sulla scia della vecchia guardia, le nuove leadership bosniace-musulmane, preferiscono non schierarsi apertamente contro chi professa rifarsi ad un Islam radicale, da una parte per non pregiudicare dei rapporti, ormai consolidati, con alcuni paesi musulmani, e dall’altra, per rafforzare l’dentità nazionale musulmana, specie nell’arena politica, alimentando, su temi sensibili, lo scontro con i rappresentanti delle altre etnie. Proprio in tal ottica può leggersi la battaglia parlamentare sul divieto di indossare il niqab. La proposta di legge, che concerne i diritti civili e il delicato bilancio fra libertà individuale e interessi collettivi, è diventato motivo di polarizzazione fra serbi e musulmani. Entrambi gli schieramenti politici hanno adottato argomentazioni relative alla difesa della nazionalità che ci riportano direttamente a un ventennio fa. Oggi più che ieri non è ammissibile non valutare, con attenzione, la coscienza delle leaderships bosniache del ruolo di confine strategico del paese e la volontà di utilizzare tale condizione per ricercare e mantenere relazioni – e sostegno – tanto ad oriente che ad occidente.
Il compito dell’Unione europea è, in tale frangente, molto delicato. Venuto meno l’equilibrio dei due blocchi, l’UE ha avuto lo spazio per potere affermare il suo ruolo sullo scacchiere internazionale, con la benedizione degli Stati Uniti, desiderosi di svincolarsi dal ruolo di “poliziotto globale” in europa. Il risultato complessivamente deludente nel gestire la fase armata del conflitto, ha reso estemamente importante per l’Unione assumere la guida della fase di ricostruzione delle nazioni nate dallo scioglimento della Jugoslavia. La chiave per agganciare tali paesi all’UE è stato promettere loro un futuro all’interno dell’Unione. La Bosnia Erzegovina fa parte a pieno titolo del processo di integrazione. La debolezza istituzionale, la paralisi politica rendono però molto lento il processo di avvicinamento all’UE. La presenza islamica in Bosnia rappresenta un non secondario elemenento di difficoltà. La discrezione con la quale viene affrontato dai media e dai politici europei il tema del fondamentalismo islamico in Bosnia Erzegovina manifesta l’imbarazzo dell’UE, soprattutto nei confronti dell’opinione pubblica, di accogliere nel seno europeo uno Stato in cui l’Islam rappresenta una componente importante. Dall’altro lato, assumere delle posizioni eccessivamente anti islamiche, pur volte a colpire le frange fondamentaliste, potrebbe accrescere la distanza fra i musulmani bosniaci e l’UE, allargando quegli spazi nei quali il fondamentalismo e l’influenza dei vicini mediorientali, stanno riuscendo a inserirsi. I risvolti di politiche poco caute potrebbero irrimediabilmente sbilanciare il labile e difficile equilibrio della Bosnia e dell’intera Regione balcanica, con le conseguenze in termini di sicurezza e interessi politico-economici che ne conseguono.
Posta l’importanza strategica che ha per l’UE l’assicurare una Bosnia “europea”, è fondamenatale che l’Europa lavori ancora più intensamente per promuovere lo sviluppo politico, istituzionle ed economico del paese, scongiurando in tal modo il dilagare di una visione anti occidentale e il ritorno ad una dialettica nazionalista, infiammata dalla presenza di un Islam radicale sul territorio. A nostro parere, la sfida che i politici dell’Unione devono riuscire a vincere è quella di fare della presenza islamica un punto di forza, anzicchè di debolezza del processo di integrazione. L’Occidente dovrebbe utilizzare la Bosnia come un esempio per la promozione di un modello di integrazione islamica che rappresenterebbe un unicum all’interno dell’Europa.
* Sara Bagnato è Dottoressa in Relazioni Internazionali (Università di Perugia)